A partire dalla sentenza n. 12408 del 7 giugno 2011 della Corte di Cassazione, la giurisprudenza ha riconosciuto alle tabelle del Tribunale di Milano per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante da lesione all’integrità psico-fisica e dalla perdita – grave lesione del rapporto parentale, il valore di parametro guida a livello nazionale sulla base dell’art. 1226 del codice civile, considerato che, in mancanza di criteri legali, esse garantiscono, “con un criterio di ragionevole approssimazione, l’uguaglianza di trattamento di situazioni uguali, con conseguente rispetto del principio di equità”.
Le tabelle milanesi, però, sono eque per ogni tipo di danno? La Corte di Cassazione pensa di no.
La Suprema Corte, che già con la sentenza n. 10579 del 21 aprile 2021, prima, e con l’ordinanza n. 26300 del 29 settembre 2021, poi, ha censurato le tabelle elaborate dal Tribunale di Milano in relazione alla liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale, le ritiene inique anche in merito al cosiddetto danno da lesione del bene salute definito da premorienza, cioè il danno non patrimoniale risarcibile nell’ipotesi in cui un soggetto, che subisca una certa menomazione invalidante a seguito di un evento lesivo, deceda prima della liquidazione del pregiudizio sofferto, per una causa esterna ed indipendente dalla lesione subita (La voce di pregiudizio in questione è espressa talvolta come danno biologico intermittente poiché è un danno liquidato in un intervallo, tra la data della lesione e la data del decesso).
Rileva difatti la Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 41933 del 29 dicembre 2021, che la tabella milanese muove da una premessa: il danno non è una funzione costante nel tempo, è maggiore in prossimità dell’evento per poi decrescere fino a stabilizzarsi.
Gli Ermellini non condividono tale premessa, ritenendola in contrasto con la logica, il diritto e la medicina legale.
Sul piano logico, considerando che il danno biologico è definito dalla legge come permanente (sul presupposto che esso scaturisca da una lesione i cui postumi, una volta stabilizzatisi, non siano più suscettibili di variazioni nel tempo), perché “non ha senso ipotizzare che un danno possa decrescere nello stesso momento in cui lo si definisce, appunto, permanente”.
Sul piano giuridico, “l’idea che il danno permanente alla salute possa diminuire nel tempo non appare corretta poiché tale pregiudizio consiste in una forzata rinuncia a una o più attività quotidiane; il danno biologico è, dunque, una rinuncia permanente”.
Sul piano della medicina legale, infine, “tale affermazione è scorretta proprio perché permanenti sono definiti in medicina legale quei postumi che residuano alla cessazione dello stato di malattia e sono perciò caratterizzati da una condizione di stabilità nel tempo”.
E allora? Quale criterio alternativo propone la Corte? Essa, pur precisando che la liquidazione di cui si discute rimane pur sempre “equitativa, rispetto alla quale i giudici di merito sono liberi di esercitare la valutazione discrezionale che deriva dalla specificità dei singoli casi”, osserva che “appare preferibile, però, un sistema di calcolo che sia rispettoso del criterio della proporzionalità. Ciò significa che il danno da premorienza deve essere calcolato considerando come punto di partenza (dividendo) la somma che sarebbe spettata al danneggiato, in considerazione dell’età e della percentuale di invalidità, se fosse rimasto in vita fino al termine del giudizio; rispetto a tale cifra, assumendo come divisore gli anni di vita residua secondo le aspettative che derivano dalle tabelle ISTAT, dovrà essere calcolata la cifra dovuta per ogni anno di sopravvivenza, da moltiplicare per gli anni di vita effettivi, in modo da pervenire ad un risultato che sia, nei limiti dell’umanamente possibile, maggiormente conforme al criterio dell’equità”.
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